Valentina Ecca è nata in Brasile, cresciuta a Roma e trasferita a Torino. Ha una laurea triennale in Lettere Moderne e una magistrale in Informazione, Editoria e Giornalismo. Dopo cinque anni di onorata università, e un tesserino da pubblicista, ha deciso di fare la Scuola Holden per disintossicarsi dalla troppa teoria. Qui è diventata una digital storyteller. Utilizza la velocità dell’internet per raccontare con urgenza, la sua globalità per arrivare a tutti, la sua profondità per nasconderci tesori da stanare.
Per il suo progetto di fine biennio ha portato sul palco un progetto che si chiama Baobab – un’applicazione mobile che indaga la questione dei figli adottivi e di come una community può aiutare la ricerca delle proprie radici.
Nome curioso, e azzeccato. Come racconta nella scheda di presentazione:
- Il nome baobab deriva dall’arabo Hu Hibab, “frutto di molteplici semi”. I figli adottivi nascono due volte, biologicamente e quando vengono adottati. Proprio come i Baobab sono frutti di molteplici storie.
- Il baobab si trova in zone del mondo molto distanti fra loro. I botanici concordano con la teoriache i semi delle piante del Madagascar siano stati trasportati dai fiumi fino all’Africa eall’Australia, qui hanno attecchito e germinato. Proprio come i figli adottivi nati in un paese eportati in un altro.
- Secondo una leggenda africana i baobab sono piovuti dal cielo. Piantati al contrario nel terrenohanno le radici allo scoperto. La missione dell’app è quella di scoprire queste radici/rami.
- Il baobab è uno degli alberi più resistenti al mondo. La sua corteccia è ignifuga. Rappresenta perfettamente la resistenza che è necessario avere per una ricerca complessa come quella delle proprie origini biologiche.
Ecco che cosa ci ha raccontato Valentina.
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Quando Facebook diventa l’isola dei bimbi sperduti
Era il 10 agosto 2018, fumai l’ultima sigaretta del pacchetto e decisi che sarebbe stata l’ultima della mia vita. Mi affacciai alla finestra del salone. Era stata una giornata tranquilla a lavoro, i miei coinquilini erano partiti e io ero, finalmente, sola a casa. Tutto perfetto, se non fosse che era la mia prima estate a Torino, ero sola, e avevo un pensiero che mi attanagliava da giugno: “che progetto di finale porterò sul palco della Scuola Holden fra un anno?”.
Ci pensavo, ci ripensavo, avevo idee, nessuna era abbastanza forte, per nessuna valeva la pena investire così tanto tempo. Era il 10 agosto 2018, stavo smettendo di fumare e l’idea per il mio progetto finale arrivò: chiara, risoluta, piena di senso. Scavava a fondo dentro di me e dentro uno dei più grandi interrogativi dell’umanità.
Decisi di intraprendere un viaggio alla scoperta delle mie origini biologiche. Sarei stata la cavia per lo sviluppo di un’applicazione web in grado di aiutare i figli adottivi a ritrovare la proprie radici. Io sono arrivata in Italia trentuno anni fa dopo essere stata abbandonata dai miei genitori “naturali”. La mia vita è stata sempre accompagnata dalla voglia di sapere a chi assomiglio, da chi ho preso il colore degli occhi e a chi devo dare la colpa per la mia non-altezza. Avrei potuto prendere un aereo per il Brasile, direzione Campina Grande, la mia città natale, ma lavoro e frequenza obbligatoria non me lo permettevano, così decisi di iniziare la ricerca dal World Wide Web e lì scoprii che l’internet nascondeva un mondo di informazioni, una miriade di persone pronte a dartele e a condividere le loro storie.
Quella che vi racconto è la prima tappa del mio viaggio, una delle più improntanti: Facebook. Qui proliferano gruppi come Nato in Brasile, alla ricerca della famiglia biologica, Adopted children looking for birth parents and siblings e molti altri ancora. Si tratta di comunità molto attive, gestite da persone che hanno l’interesse comune di ritrovare le proprie origini. Si pubblicano annunci, fotografie e si racconta la propria storia.
In Italia, dal 2008, ne esiste uno gestito da Laura Perspicace “l’angelo del web”. La scrittrice catanese si occupa di pubblicare appelli per le persone adottate. Li inserisce su gruppo e sito web gestiti da lei e, a suo dire, condivide in tutti i social e li “registra” nei motori di ricerca. Tutto senza scopo di lucro, sempre a suo dire. Le persone che in Italia si affidano a lei sono diverse e spesso sulla pagina vi sono ringraziamenti da parte degli utenti verso “l’angelo del web”.
Dopo l’iscrizione a questo gruppo pubblicai un post con un sondaggio utile alla mia ricerca, mai l’avessi fatto! Il post fu cancellato e io fui rimproverata perché il mio annuncio «confondeva» gli iscritti. Me la presi, ebbi un diverbio con l’amministratrice, poi ci ragionai e capii perché la sedicente detective si era così accanita con me. Quello era il suo regno, io ero entrata senza chiedere permesso. Fu interessante capire quanto quel luogo non fosse solo una comunità digitale, ma un vero e proprio santuario della speranza. I ringraziamenti che Laura Perspicace riceveva erano delle odi alla sua bontà e alla grandezza della sua causa.
Fortunatamente per la mia ricerca negli altri gruppi non mi cancellarono il post e ricevetti decine di risposte al sondaggio. Fu impressionante vedere come le persone si aprivano e mi raccontavano la propria storia, fidandosi semplicemente della dichiarazione che anche io ero una figlia adottiva alla ricerca.
Quello che risultò evidente da subito è che in questi gruppi vige una regola antichissima, una di quelle cose di cui forse solo i nostri nonni conservano ancora memoria: “la buona fede”. Bastò dire che, anche io, ero una rappresentate della categoria e che stavo effettuando la mia personale ricerca, per aver accesso al passato più intimo di questi perfetti sconosciuti.
Ho conosciuto Angie, ragazza peruviana adottata in Italia. Mi ha raccontato la sua storia, mi ha parlato del ritrovamento, proprio su Facebook, dei suoi genitori biologici e mi ha chiesto di cercare per lei delle informazioni sulla veridicità di alcune notizie che non le risultavano chiare. Ho scoperto le storie di Gerona, Michel, Leander e Gustavo, tutti ragazzi iscritti al gruppo della Casa da Criança Dr. Joao Moura, l’orfanotrofio dove fui lasciata alla nascita.
È stato come ritrovare qualcuno di famiglia, anche se nessuno di loro lo è effettivamente. Siamo nati nella stessa città, siamo stati accuditi nello stesso istituto più o meno negli stessi anni e tutti abbiamo sentito l’esigenza di raccontarci.
Dopo un anno passato a leggere storie, commenti e a cercare dettagli nelle foto, ho capito che gli iscritti ai gruppi non condividono informazioni solo nella speranza che possano essere utili alla propria ricerca. Le affidano al gruppo perché anche solo un pezzettino del loro passato potrebbe essere utile alla ricostruzione di quello di qualcun altro.
Io, per esempio, ho trovato un articolo di giornale che parla del mio ritrovamento, ho scoperto che negli anni ’80-’90 in Brasile venivano pubblicati degli articoli di giornale che avvertivano le famiglie e le comunità che un minore era stato trovato in stato di abbandono. Ho affidato quest’informazione al gruppo dei miei “fratelli di culla” e, anche alcuni di loro, hanno trovato il proprio personale articolo.
Le notizie si legano, proprio come nel sottosuolo di una foresta, migliaia di piccole radici crescono e si intrecciano. L’esistenza di questi gruppi Facebook nasce spontaneamente, alcuni sono moderati da utenti semplici, altri hanno dietro persone che si occupano di adozione e diritti dei minori.
Se una comunità così vasta si ritrova sui social media, è evidente che lo fa per colmare un vuoto legislativo e istituzionale. Ad oggi, infatti, in Europa non esiste un’associazione o un ente guidato dallo Stato che si occupa di esigenze come il diritto alle origini. Ci si ritrova a combattere fra richieste ai tribunali, burocrazie lente, e si ricorre a metodi costosi, come l’assunzione di un investigatore privato. Ecco perché queste comunità prendono vita in uno spazio libero e gratuito come Facebook.
Sono collettivi che si nutrono di speranza e di conforto. Mio padre quando ero piccola, per spiegarmi come funzionava l’adozione ai suoi tempi, mi raccontò la storia dei “fill’e anima”, in sardo figli dell’anima. Si trattava di bambini orfani o abbandonati che venivano presi in custodia da una famiglia ma, di fatto, adottati da tutto il paese.
Nel momento in cui un bimbo restava solo se ne prendeva carico l’intera comunità. Lo accudivano e gli regalavano speranza. Ecco questi gruppi sono diventati proprio come i piccoli paesini nella Sardegna degli anni Quaranta. Un luogo dove essere accuditi, rifocillati di informazioni e nutriti di speranza. La storia dell’uno è parte di quella dell’altro e, prima o poi, qualcuno proprio su Facebook, trova delle risposte.