Scuro Chiaro

Nel film Disney del 1994 Il Re Leone, una scena memorabile è quella in cui Timon, il vivace suricato, e Pumbaa, il simpatico facocero, introducono Simba alla loro dieta a base di insetti. Il giovane leoncino, visibilmente perplesso, osserva i suoi nuovi amici divorare larve e insetti con entusiasmo, ma alza lo sguardo al cielo con una certa riluttanza. Questa reazione, condivisa probabilmente anche dagli spettatori, rafforza il pregiudizio comune secondo cui gli insetti non sono un cibo appetibile o igienico. Da piccoli, infatti, ci viene spesso insegnato che gli insetti sono sporchi o pericolosi, radicando in noi una naturale avversione verso l’idea di mangiarli.

Ma perché siamo così riluttanti all’idea di mangiare farina di grillo, ma non battiamo ciglio davanti a un piatto di gamberoni alla piastra? La risposta risiede nei gusti e nei disgusti che abbiamo appreso crescendo, modellati dalla famiglia e dalla società. Il cibo, per noi, non è solo nutrimento, ma anche tradizione, cultura e identità. Tuttavia, l’emergenza climatica e la necessità di trovare fonti alimentari più sostenibili ci stanno spingendo verso un cambio radicale delle nostre abitudini a tavola. Ridurre l’impatto sull’ambiente e garantire una distribuzione più equa delle risorse non è più solo un’opzione, ma un obbligo.

Ed è in questo contesto che i cosiddetti novel food stanno facendo il loro ingresso sulle nostre tavole: insetti, cactus, meduse e alghe non saranno più solo ingredienti esotici legati a Paesi lontani o a menù da ristoranti gourmet, ma potrebbero presto diventare parte integrante della nostra alimentazione quotidiana. Questi alimenti, una volta considerati strani o persino repellenti, potrebbero trasformarsi in alternative valide, gustose e salutari, in grado di soddisfare il nostro fabbisogno nutrizionale senza gravare sul pianeta.

Ma possiamo davvero “imparare” a gustare nuovi cibi? L’essere umano è, da sempre, un animale nomade e adattabile. La storia dimostra che ciò che oggi consideriamo normale in cucina, un tempo era visto con sospetto: mais, pomodoro e patate, per esempio, erano alimenti sconosciuti o persino malvisti in Europa prima di essere introdotti dal Nuovo Mondo. La nostra capacità di adattarci a nuovi sapori e ingredienti è quindi intrinseca alla nostra natura. E così come il mondo si è aperto ai sapori di nuove terre in passato, potremmo presto rivalutare i nostri criteri di gusto e abbracciare una dieta che includa piatti che, oggi, sono consumati abitualmente in altre parti del pianeta. Forse, un domani, ci sorprenderemo a gustare cavallette croccanti a colazione con lo stesso entusiasmo con cui oggi mangiamo un panino o una pizza.

Sul tema il 21 maggio è uscito in libreria Cavallette a colazione. I cibi del futuro tra gusto e disgusto, nuovo titolo della serie Dialoghi di Pistoia, edita da UTET, scritto dall’antropologa culturale Gaia Cottino (160 pagine; €17).

Gaia Cottino, dottore di ricerca in Antropologia culturale all’Università di Genova, è un’esperta dei temi legati all’alimentazione e alle politiche locali e globali su agricoltura, orticoltura e nutrizione. Tra le sue recenti pubblicazioni, spiccano Il peso del corpo. Un’indagine antropologica dell’obesità a Tonga (Unicopli, 2022) e Verso monte. Nuove mobilità e culture del cibo nelle Alpi Occidentali (Unicopli, 2023), confermando il suo impegno nel campo delle trasformazioni alimentari e culturali a livello globale.

Il libro esplora il futuro dell’alimentazione, focalizzandosi sia sulle strategie collettive necessarie per ridisegnare i nostri sistemi alimentari, sia sulle piccole scelte individuali che potrebbero includere alimenti più sostenibili come alghe, meduse, insetti e cactus. Scrive Carlo Petrini nella prefazione:

“Questo lavoro è un fulgido esempio di educazione alimentare a tutto tondo che vuole anche allontanare dai nostri pensieri inutili fobie legate al cibo del domani. Viviamo, infatti, in un momento di trasformazione profonda e dobbiamo essere coscienti che le sfide del futuro rivoluzioneranno il panorama globale sotto ogni punto di vista.”

Cavallette a colazione. I cibi del futuro tra gusto e disgusto si articola in quattro capitoli, offrendo un glossario antropologico di base per comprendere l’alimentazione da una prospettiva socioculturale.

“Ricerche scientifiche sull’assaggio di questi nuovi alimenti indicano proprio la morfologia come primo limite al loro consumo in Occidente. La lingua inglese distingue tra disgust e distaste, riuscendo a rendere la differenza tra il disgusto collettivo nel primo caso e il disgusto individuale nel secondo. Come collettività proviamo un senso di disgusto alla vista degli insetti e delle meduse, ma poi all’assaggio ciascuno potrà provare piacere o no. Il disgusto nasce dalla vista della loro morfologia perché è l’occhio che classifica e non il gusto a determinare se un prodotto può o meno essere consumato.” (p. 127)

Il primo capitolo è dedicato ai concetti di gusto e disgusto, esplorando le prescrizioni e i divieti alimentari che definiscono e distinguono le diverse collettività di consumatori. Nel secondo capitolo, l’autrice analizza la storia della selezione e introduzione di nuovi alimenti nella dieta, come è accaduto con patate, mais e pomodori provenienti dalle Americhe, oggi ingredienti essenziali di piatti simbolici come la pizza, diventata emblema della cucina italiana.

Il terzo capitolo si concentra sugli alimenti “nuovi” che, sebbene consumati altrove da milioni di persone, sono ancora esclusi dalla nostra alimentazione. Questi nuovi cibi, suddivisi in base ai loro domini di origine (acqua, terra e laboratorio), rappresentano il cibo del futuro che potrebbe presto entrare nelle nostre abitudini alimentari. Infine, nel quarto capitolo, Cottino offre spunti per comprendere e decostruire le resistenze occidentali verso questi alimenti.

Come i cibi del passato, un tempo considerati strani e repellenti, anche oggi il cibo del futuro suscita timore, ma la nostra capacità culturale di selezionare e incorporare nuove abitudini alimentari può superare le resistenze. È necessario saper collocare questi nuovi alimenti a livello tassonomico e morfologico, e abbandonare l’eredità coloniale che li associa a un’alimentazione “incivile” o primitiva.

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