È l’argomento caldo del momento.
No, non parliamo dei Ferragnez, no.
Quando OpenAI ha regalato ChatGPT alle persone, abbiamo toccato con mano chiaramente la forza dirompente dell’intelligenza artificiale a portata di chiunque, rendendo evidente che, volenti o nolenti, questa tecnologia cambierà il modo in cui viviamo le informazioni e interagiamo con i contenuti. Aveva visto lungo Baricco con The Game, forse, quando scriveva che
“la rivoluzione digitale non ha cambiato noi, siamo noi che, essendo cambiati, abbiamo creato gli strumenti tecnologici che ci servivano; non siamo vittime degli smartphone, dei social network, dell’intelligenza artificiale e via dicendo, siamo noi che abbiamo voluto essere “umani aumentati””.
L’avreste mai detto che un giorno avreste potuto far giocare a basket un lama?
Quando nel 2011 hanno fatto capolino sul mercato gli assistenti digitali e vocali, in tanti hanno pensato di essere davanti a una nuova alba per l’interazione uomo-computer. La verità è che negli anni successivi non sono diventati una fonte di meraviglia per i consumatori, anche per via del fatto di essersi arenati a rispondere a domande rudimentali senza addentrarsi più di tanto nella complessità del linguaggio umano. La meraviglia la stiamo piuttosto vivendo adesso con ChatGPT che, dal novembre 2022, ci sbalordisce per la sua capacità di produrre risposte coerenti a riflessioni complesse come “gli NFT sono morti” oppure a richieste come “fammi una battuta divertente sui rischi finanziari del lavoro a distanza”.
E se un domani questi strumenti vincessero un premio Nobel per la letteratura o sostituissero la collezione Rembrandt al Rijksmuseum? Oggi discutiamo se colonizzeranno le banche immagini, e per ora gli altri sembrano solo scenari di futuro assurdo ma chi può davvero escluderlo. Nonostante i risultati a volte siano impressionanti, la tecnologia è ancora in una fase iniziale: i risultati attingono da cosa c’è a disposizione in Rete, dunque c’è parecchio materiale fuorviante, errato o addirittura pericoloso con cui fare i conti.
Quasi a nessuno piacciono i chatbot, lo dicono le ricerche. Questo perché, in particolare, sono più affidabili nel rispondere a domande predeterminate e sono piuttosto limitati nelle risposte che possono offrire. Al contrario, tecnologie simili a Chat GPT possono attingere da un linguaggio più umano e, a volte, uscire dai binari delle risposte convenzionali. Ecco allora che si parla di “intelligenza artificiale emotiva“, ovvero macchine con una sorta di comprensione dell’esperienza emotiva dell’altro. Nella medicina, ad esempio.
Come sempre, c’è chi non è molto d’accordo.
E chi ci ricorda di quanto l’AI sappia essere distruttiva.
Collegato al tema della relazione con le intelligenze artificiali, c’è il bisogno di empatia. L’obiettivo è quello di comprendere meglio l’intento dietro una query, il perché – proprio come si fa in etnografia digitale e con gli small data. Noi esseri umani dovremo insegnare alle macchine l’importanza di catturare sfumature, sottotesto e intento, dunque mescolare i risultati e presentarli all’utente in un modo che sia rilevante non solo per la sua query, ma anche per la sua persona, le sue preferenze, i suoi valori.
Sebbene ChatGPT sia stato addestrato su 570 gigabyte e oltre 300 miliardi di parole, elaborare dati aggiornati e accurati e poi analizzarli per ottenere i migliori risultati è sfidante, anche perché se vengono fornite informazioni sbagliate o il sistema viene addestrato male, genererà un risultato fuorviante.
Con il motore di ricerca Neeva qualcosa potrebbe cambiare.
Intanto, anche i disegni dei bimbi diventano altro.
Su uomo-macchina, da pochi giorni KMagazine ha lanciato la sua prima pubblicazione, Feedback, che – a partire dalla metafora della pelle – indaga le risposte percettive del nostro corpo a stimoli sociali, biologici, linguistici e culturali; e come queste siano ormai contaminate dagli sviluppi tecnologici. Ogni capitolo esplora una “sensazione” provata sulla pelle, e la racconta in relazione a un “settore”: dalla musica all’arte contemporanea. Feedback è un percorso che si conclude con una riflessione: il digitale assorbirà interamente la nostra esistenza relazionale?