Tratto dal libro Vivere in tre atti
di Leonardo Staglianò – Franco Cesati Editore
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Negli Stati Uniti i due maggiori partiti, Repubblicano e Democratico, scelgono il proprio candidato alla Casa Bianca attraverso le primarie. Al termine di un lungo e combattuto processo si ha una Convention nazionale, in cui si proclama il vincitore. L’evento si svolge in estate, pochi mesi prima che gli elettori siano chiamati alle urne, e rappresenta il formale inizio della campagna presidenziale; quando ha luogo, le votazioni nei singoli Stati sono già avvenute, per cui di norma il nome del prescelto è già noto. Ogni Convention nazionale ha un discorso di apertura, e tenerlo è un grande onore. Nel 2000, quando i democratici affidarono la candidatura a John Kerry, a parlare fu un senatore dell’Illinois all’epoca relativamente poco noto: Barack Obama. Era il 27 luglio.
Obama è grato di essere sul palco, e per un motivo in particolare: una presenza come la sua non è consueta su quel podio. Suo padre è cresciuto in un piccolo villaggio del Kenya, sua madre in Kansas; entrambi provenivano da famiglie poco abbienti, che però avevano grandi sogni per i propri figli. Gli stessi che i suoi genitori, ormai morti, hanno avuto per lui: frequentare le migliori scuole, pur non essendo ricchi, e sviluppare il proprio potenziale. Ed è ciò che è avvenuto: non sarebbe lì, altrimenti. La sua è una storia americana: una storia che non sarebbe potuta accadere altrove. Quella sera sono riuniti per celebrare la grandezza dell’America, che non è fatta di grattacieli, ma di princìpi; sono lì per ricordare che gli uomini sono creati uguali, e hanno uguali diritti: sicurezza, legalità, libertà di voto e d’opinione. È l’anno delle elezioni e quei princìpi vanno riaffermati. Le persone che incontra ogni giorno hanno bisogno di lavoro, cure mediche e istruzione, e al governo non chiedono di risolvere i loro problemi, bensì di permettergli di risolverli da soli. Il candidato che hanno scelto, John Kerry, crede in tutto ciò, e sia la sua biografia, sia le sue battaglie lo testimoniano.
In quei valori crede anche Seamus, un giovane marine che Obama ha incontrato di recente, prima che partisse per l’Iraq; pensando a lui, si è chiesto se davvero stiano realizzando quei princìpi. Stanno ripagando la fiducia di Seamus? Obama si domanda se l’America si prenda cura dei suoi soldati, delle loro famiglie, dei bambini analfabeti, di chi non può pagarsi le medicine, e degli arabi americani le cui libertà civili sono in discussione; si chiede poi se gli americani abbiano la forza di combattere chi vuole dividerli in fazioni, in base alle convinzioni politiche, all’orientamento sessuale o al colore della pelle. È questa la posta delle elezioni: vincerà il cinismo o la speranza? Kerry rappresenta quest’ultima: la speranza di chi è stato schiavo o immigrato, di chi ha lottato in Vietnam o ha fatto l’operaio, di chi pensa che ancora non abbiamo visto tutto, e che ci saranno giorni migliori. Obama conclude dicendo che crede nella possibilità di aiutare la classe media, i poveri, e i giovani in difficoltà: possono farcela, devono solo sceglierlo.
Obama ha un preciso compito: fornire un ritratto del candidato Presidente e convincere gli elettori, o una specifica fetta, a votarlo. Formalmente, è quello che fa: cita il passato di Kerry e alcuni dei suoi cavalli di battaglia. Nella sostanza, compie un’operazione radicalmente diversa: sul palco di Boston presenta sé stesso, non il candidato del partito, e analizzando la struttura drammaturgica del suo discorso ciò emerge con chiarezza.
Il senatore dell’Illinois si erge a protagonista della storia che andrà a raccontare. A differenza di Kerry, Obama è un uomo di colore, e decide di evidenziare subito questo elemento: di fatto, crea un incidente scatenante che esula dal programma della Convention. Il discorso è iniziato da neanche trenta secondi, e lui scaglia la bomba: la presenza di un afroamericano su quel palco è improbabile. Tradotto: l’America avrà mai un Presidente di colore? Siamo in pieno primo atto, e come accade in molte drammaturgie il protagonista è davanti a più bivi: quale seguirà? Parlerà del candidato, o dell’uomo di colore sul podio della Convention presidenziale? In apparenza sceglie la prima strada; in realtà percorre la seconda. Dopo aver presentato la propria storia familiare, Obama chiude il primo atto dicendo che quella sera sono riuniti per celebrare la grandezza dell’America, una nazione in cui tutti sono creati uguali. Il primo punto di svolta coincide con questa affermazione: se dimostrerà che l’America è davvero una terra di libertà, implicitamente avrà dimostrato che anche lui, un afroamericano proveniente dalla classe media, può essere candidato a Presidente. Siamo a circa un terzo del discorso, e Kerry ancora non è stato neanche nominato.
Obama inizia il secondo atto esponendo un vero e proprio programma politico: il suo. Parla delle persone che ha incontrato, e di cosa bisognerebbe fare. Introduce Kerry, ma solo per relegarlo al ruolo di comparsa: a conti fatti, del candidato dice unicamente che ha degli ideali simili ai suoi. Non solo non ne enfatizza la figura, ma subito dopo, con la storia del marine Seamus, si chiede se davvero i democratici, e l’America, stiano lottando per chi soffre. In questo passaggio, che sancisce il midpoint del discorso, Obama compie una doppia operazione: da una parte, riporta l’attenzione su di sé, relegando Kerry al ruolo di un comprimario che merita al massimo una digressione; dall’altra, pone un’implicita domanda all’elettorato: io mi preoccupo di Seamus, e voi? E Kerry?
Nella prima metà del discorso Obama descrive un’America che crede così tanto nell’uguaglianza da indurlo a domandarsi se la fiducia che il popolo nutre in loro, i democratici, sia ben riposta. Dopo il midpoint, Obama affronta la questione; la seconda parte del secondo atto evidenzia che ognuno deve lottare per questo ideale: lui, Kerry, gli americani tutti. Devono proteggersi l’un l’altro, anche perché vi sono forze che li spingono a dividersi. Questo ragionamento conduce Obama al secondo punto di svolta del discorso: l’evidenza che il valore dell’uguaglianza, in America, è tutt’altro che consolidato, e non può essere dato per scontato. Ancora una volta, al centro della riflessione non c’è Kerry, bensì lui stesso, l’afroamericano sul podio della Convention. Se l’uguaglianza non si realizza, va da sé che lui non potrà mai tornare su quel palco come candidato Presidente.
Nel terzo atto, Obama dichiara di voler credere nell’uguaglianza. Il suo è un atto di fede, ed è anche un modo per dire che l’America può davvero farcela. Nel passaggio finale cita Kerry e, da prassi, invita gli elettori a votarlo; questo però è solo l’epilogo della drammaturgia: il climax viene prima, e coincide con la previsione che «i giorni migliori» e «più luminosi», per l’America, devono ancora venire, e saranno giorni di cose ancora non viste. In superficie, sta parlando di Kerry; di fatto, continua a parlare di sé. Si è già visto, molte volte, un uomo bianco candidato a Presidente per i democratici: Kerry è l’ennesimo. Quello che non si è ancora visto è uno come lui, un afroamericano, invitato su quel podio non per presentare un altro, ma sé stesso e le proprie idee. E dal momento che quella poteva essere la sua unica occasione per dirlo, si è preso il palco e lo ha detto.
Obama crea conflitto con la sua semplice presenza, e invece di celarlo lo espone e lo carica di significato: chiede agli americani se sono pronti a vedere uno come lui candidato a Presidente, ed è evidente a tutti che gli ostacoli da superare sono tanti. La sua struttura in tre atti non è solo formale: è sostanziale.