Scuro Chiaro

I brand devono essere più autentici. Lo sentiamo ripetere da mesi e mesi, e ancora con più insistenza adesso che ci avviamo verso la Fase2. Ma che cosa significa, esattamente? Quali sono gli elementi che trasformano fuffa in concretezza?

C’era una volta un copywriter leggendario di nome Claude C. Hopkins, a detta di altrettanto illustri colleghi “il più grande creatore di pubblicità che abbia mai praticato quest’arte”. È l’anno 1923, siamo negli Stati Uniti e va in stampa Scientific Advertising (che potete scaricare gratis qui), masterpiece che rimette al centro la ricerca di dati, la verificabilità e la psicologia. Certo, stiamo parlando degli anni Venti, e in quello che scrive Hopkins ci sono non poche rigidità, ma c’è un solco tracciato che oggi risuona quanto mai attuale: chi scrive non deve temere la tecnologia, perché è a nostro vantaggio, e può dirci cosa ha funzionato e cosa no.

Dati verificabili

Senza che ci fossero ancora gli algoritmi all’orizzonte, il pubblicitario teneva traccia dei risultati della sua pubblicità, usando coupon con codice chiave e quindi testato titoli, offerte e proposte l’uno contro l’altro. Utilizzava l’analisi di queste misurazioni per migliorare continuamente i risultati degli annunci, stimolare le risposte e l’efficacia in termini di costi della spesa pubblicitaria dei suoi clienti. Ma c’è un passaggio in tutto il suo lavoro che più ci sta a cuore, e ha a che fare con le emozioni.

Emozioni umane

Lo stiamo vedendo: i tempi e gli strumenti cambiano, ma la natura umana no. E così Hopkins ci ricorda che il pubblicitario competente deve capirne di psicologia, e più ne sa, meglio è. Aggiungiamo noi, che deve masticare anche qualcosa di antropologia e sociologia, per mettere le proprie riflessioni anche nel giusto contesto culturale. Alla luce di questo, diventa alquanto vano prevedere il “futuro” del marketing se teniamo conto solo di dove ci porterà l’evoluzione tecnologica. Chi si occupa di comunicazione e pubblicità oggi, soprattutto davanti a stravolgimenti giganteschi come quello portato dal Coronavirus, dovrebbe fermarsi a capire, fare ricerca, piuttosto che reagire prontamente.

Parole chiare

Inutile girarci attorno, quando lavoriamo in comunicazione, abbiamo a che fare con la capacità di persuasione, dove ogni parola è importante. Non è ben chiaro quando la parola “pubblicità” è diventata una parolaccia, e dichiarare di fare comunicazione per vendere è percepito come disdicevole, ma di questo si tratta. Bellissimi i manifesti dei brand su quanto è bello essere italiani, bellissimi i posizionamenti intorno alle tensioni culturali, bellissimo tutto, ma a un certo punto le aziende dovranno tornare a fare le aziende: relazionarsi al consumatore per vendere, come fa un venditore.

Storie di senso

Attenzione, non è la morte dello storytelling, ma è il momento di salutare la scrittura che gocciola buonismo, perfezione e buoni sentimenti. Le storie trasportano l’ascoltatore in universi narrativi e tale trasporto porta, eventualmente, alla persuasione, che non significa “fregare l’altro”, ma dargli gli strumenti per capire se il valore di quel prodotto o quel servizio ha senso per la propria vita. Troppo spesso le aziende si concentrano su “cosa fa il prodotto”, piuttosto che rivolgersi una domanda più semplice: quello che sto proponendo è qualcosa che le persone vogliono davvero? Ha senso per loro?

Ritorno ai perché

Quasi cento anni fa, Hopkins scrive che se ci trovassimo a vendere un nuovo dentifricio, avremmo come primo istinto quello di enfatizzare la sua capacità di combattere la placca, ma se le ricerche dimostrassero (come fecero) che ciò che le persone vogliono davvero sono i denti più bianchi, allora dovremmo cambiare strategia. Dobbiamo tornare ai perché: perché le persone dovrebbero scegliere il mio brand, perché proprio il mio prodotto? Oggi le aziende dovrebbero inannanzitutto trovare queste risposte. La grande scrittura pubblicitaria è, ancora di più al giorno d’oggi, il risultato di una lettura approfondita dell’umano.

Incrocio di idee

Un altro esempio citato da Hopkins ha a che fare con la vendita di caffè decaffeinato. In un primo momento, i messaggi intorno al caffè senza caffeina erano deboli, fino a quando una ricerca ha dimostrato che la caffeina impiegato fino a 30-45 minuti a svegliarci. Quindi gli effetti immediati che le persone cercavano dal caffè non provenivano dalla caffeina; la rimozione della caffeina non rimuoveva la spinta. Cosa ci dimostra questa storiella? Che per fare pubblicità dobbiamo conoscere tutto, ma proprio tutto, di come funziona quel prodotto o quel servizio. Non possiamo più permetterci di improvvisare, un concept creativo non basta, e neppure una buona mano nella scrittura.

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